S’immagina una Sardegna scolpita dal sole, un’isola dove il vento ti accarezza e ti schiaffeggia nello stesso istante. La polvere si alza dai sentieri battuti, tra muretti di pietra che sembrano reggere il peso di secoli. È una terra ruvida, antica, che ti guarda negli occhi senza chiedere permesso. Qui, tanto tempo fa – ma non poi così tanto, se ci pensi – il mare non era l’unico a strapparti un groppo in gola. C’era qualcosa di più profondo, di più vivo, che si insinuava tra le case di sassi e i pascoli bruciati dal caldo. Qualcosa che cantava. Io, da bambina, lo scoprii per caso. Una parola sussurrata, quasi un mistero: *Atitadoras*. “Chi sono?”, mi chiesi, con quella curiosità che ti pizzica le mani e ti fa sbirciare dietro gli angoli. Pensavo fosse una favola, un racconto da tramonto per tenere a bada i capricci. E invece no. Erano vere. Donne di carne e lutto, donne che trasformavano il dolore in un urlo poetico, un canto che ti prendeva lo stomaco e non lo lasciava più.

Le vedevi arrivare nei villaggi dell’entroterra, avvolte in scialli neri che sembravano assorbire la luce. Il viso segnato, gli occhi come specchi di un dolore che non si può dire a parole. Cantavano in sardo, una lingua che vibra di terra e sale, e le loro voci erano lame affilate: raccontavano chi non c’era più. Non solo pianti, intendiamoci. Erano storie. “Era un uomo buono, con le mani ruvide di chi ha lavorato tutta la vita”, dicevano. Oppure: “Rideva forte, lo sentivi da lontano, e ora questo silenzio ci uccide”. Ogni nota era un ritratto, un ricordo che si faceva carne. Io me le immagino là, in piedi davanti a una piccola folla di volti stanchi, con l’odore di pecore e fieno nell’aria, il crepitio di un fuoco lontano, e quel canto che si alzava come un ponte fragile tra i vivi e i morti. Ma come si fa, mi chiedo ancora oggi, a trovare una melodia in tanto buio? Non è semplice spiegarlo. Forse non si può.

Era un rito, sì, ma anche di più. Nei paesi dell’interno, dove la vita scorreva lenta e ogni perdita pesava come un macigno, le Atitadoras erano un abbraccio collettivo. La comunità si stringeva intorno a quelle voci, quasi a dire: “Non sei solo, ci siamo noi”. Dolore e bellezza si intrecciavano, come il filo di un telaio vecchio, un po’ storto ma ancora capace di tenere tutto insieme. Si dice che aiutasse, che desse un senso. La morte, dopotutto, non è forse solo una curva del cammino? Una tappa, non la fine? Così mi raccontava mia nonna, almeno, mentre sbucciava una mela con quel suo coltellino consumato. “La vita gira, e loro lo sapevano”, diceva. Eppure, a volte mi domando: era davvero consolazione, o solo un modo per non crollare?

Poi il tempo ha fatto il suo gioco. Le cose cambiano, si sa. La Sardegna di oggi non è più quella di allora: i trattori hanno preso il posto degli asini, le strade asfaltate hanno coperto i sentieri polverosi. E le Atitadoras? Sono diventate rare, quasi un’eco che si perde nel rumore delle televisioni accese e dei cellulari che squillano. È evoluzione, dicono. O forse involuzione, chi lo sa? Mi perdo a pensarci, e forse mi sto ripetendo, ma sento di doverlo dire: c’è qualcosa di ingiusto in questo svanire. Eppure, non tutto è perduto. Oggi, tra i vicoli di Nuoro o nelle serate d’estate nei cortili di Orgosolo, c’è chi prova a riportarle in vita. Artisti, giovani con la chitarra in mano, studiosi con registratori sgangherati. “Non possiamo lasciarlo morire”, mi ha detto una volta un ragazzo, occhi accesi e voce spezzata dall’emozione. “Quei canti sono noi”. E aveva ragione. Il *Lamentu de sas Atitadoras* non è solo un pianto per chi se n’è andato: è un grido di forza, un modo per dire al mondo che anche nella sofferenza c’è poesia. Che le radici, per quanto sepolte, continuano a pulsare.

Chiudo gli occhi e provo a sentirlo, quel canto. È un lamento sommesso, sì, ma intenso. Sa di sale, di terra arsa, di mani screpolate che stringono un rosario. È la Sardegna più vera, quella che non si piega, che trasforma le lacrime in arte. E allora ti viene voglia di partire, di camminarci dentro, in quest’isola che respira storia e magia. Magari lungo la strada, tra un nuraghe e un tramonto rosso fuoco, ti capita di sentire un’eco lontana. Un canto che parla di nostalgia, di amore, di vita. E ti chiedi: non è forse questo che la rende unica? Sbaglierò, ma io ci credo ancora. Provare per credere.

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