L’arte di non esserci.

Dalla FOMO alla JOMO: riscoprirsi nell’era dell’iperconnessione.

A volte mi chiedo se la nostra ossessione per la connessione non nasca da un antichissimo bisogno rituale di non essere dimenticati dal gruppo. In un’epoca in cui il gruppo è divenuto globale, digitale, ubiquo, la “paura di perdersi qualcosa” sembra quasi una forma moderna di superstizione: rimanere sempre vigili davanti all’altare dei social media affinché non ci sfugga l’oracolo di un nuovo evento, una nuova festa, un nuovo frammento di vita altrui. Eppure, in questa logica di onnipresenza simulata, s’intravede già il germe di un paradosso profondamente umano: più corriamo a inseguire la vita degli altri, meno abbiamo tempo per la nostra.

È qui che si inserisce quella che, con apparente semplicità, chiamiamo “gioia di perdersi qualcosa”. Una gioia che rovescia la prospettiva: non più accumulare esperienze – reali o digitali – per sentirci esistere, ma ritirarsi, per un istante, per un’ora o per un giorno, e sperimentare il sollievo di non dover rincorrere ogni “highlight” altrui. È come scoprire che nella penombra del non detto, del non postato, del non visto, possano sbocciare zone di autenticità impreviste.

Ma perché mai, in un contesto che ci promette la possibilità di essere dovunque, dovremmo voler sparire? Forse perché, in fondo, la troppa luce acceca; il flusso ininterrotto di notifiche e richiami digitali ci lascia storditi, incapaci di dare peso e forma ai nostri desideri profondi. La FOMO (Fear of Missing Out), in tal senso, si presenta come una patologia dell’illusione di onnipresenza, figlia di una società che esige di essere sempre al passo – al passo con l’informazione, al passo con i trend, al passo con l’ultimo ritornello o la più recente impresa di chi, per definizione, è altrove. Una forma di ansia (o, se preferiamo, un religioso timore) che nasce non dal vuoto ma dalla saturazione, dalla ripetizione costante dei medesimi slogan di successo, al punto da rendere qualsiasi pausa un tradimento nei confronti dell’imperativo alla condivisione.

Se la FOMO è figlia del turbamento e del confronto, la JOMO (Joy of Missing Out) si propone come la sorella ribelle, quella che ci sussurra: “Che cosa accade se rinunci? Che cosa accade se non vuoi essere lì dove tutti ti dicono che dovresti stare?” È una domanda liberatoria, e al tempo stesso spaventosa: liberarci dall’obbligo di apparire può significare, in un primo momento, scontrarci con una sorta di vertigine identitaria. Chi sono io se non mi vedono? Se non aggiorno la mia bacheca, se non partecipo al vortice di messaggi e immagini, riuscirò a esistere senza l’approvazione silenziosa di uno schermo?

È in questa mancanza di risposte immediate che si annida il valore antropologico della JOMO: la capacità di stare nel vuoto, di accogliere il silenzio digitale e farne occasione di introspezione. Una forma di neo-ascetismo, se vogliamo, che non consiste nella fuga dalla tecnologia tout court, bensì in una sua parziale sospensione rituale. Spegnere lo smartphone (o comunque limitare la sua onnipresenza) si trasforma in una pratica di igiene mentale, un gesto con cui ci riappropriamo dei tempi lunghi, dei respiri che non si piegano alla frenesia delle notifiche.

Paradossalmente, questa scelta non è semplice alienazione dal sociale: può, al contrario, rafforzare le relazioni di prossimità. Nel momento in cui smettiamo di investire ogni istante nell’ansia del confronto, scopriamo la possibilità di interazioni più lente, di incontri privi dell’urgenza di essere testimoniati in rete. Scopriamo, cioè, che l’intensità di un abbraccio, di una chiacchierata intorno a un tavolo, di un pomeriggio di solitudine creativa, vale più – o quantomeno in modo diverso – di quella continua verifica del “cosa fanno gli altri”. Forse si tratta di un ritorno simbolico a un’umanità pre-digitale, ma che non rinnega affatto la tecnologia: la usa con la consapevolezza di un rituale che va iniziato e concluso, un andare e tornare, un connettersi e disconnettersi a ritmi sostenibili.

È affascinante, poi, notare che la FOMO si radichi soprattutto nei più giovani, in quella fase in cui l’identità si plasma attraverso mille specchi sociali. Eppure, proprio in quel contesto, la “fame” digitale può diventare insieme trappola e punto di svolta: chi vive l’eccesso di esposizione prima o poi avverte il bisogno di un respiro, sviluppando una forma di “resistenza” che si traduce nella JOMO. Un circolo dialettico, insomma, in cui la sovraesposizione partorisce la necessità della sottrazione, e il disagio dell’iperconnessione apre alla gioia della disconnessione.

In fondo, ciò che la JOMO evidenzia è un bisogno antropologico di auto-tutela, un baluardo contro l’indistinzione del “tutto-subito-ovunque”. Può suonare come una contraddizione: in un mondo che ci spinge a desiderare sempre di più, l’unica vera ricchezza è imparare a desiderare di meno. Ma questa minor quantità – selettiva, pensata, cercata – si muta in qualità dell’esperienza, perché non ci limitiamo più a scorrere la vita di altri, bensì ci concediamo il lusso di abitarla nella nostra carne viva. E allora la disconnessione non è più latitanza dalla realtà, bensì immersione in una realtà più a misura di noi stessi, di ciò che siamo e di ciò che cerchiamo.

Non si tratta, pertanto, di demonizzare smartphone e social network, che possono restare strumenti utili di condivisione e conoscenza, sebbene non esenti da rischi. È, piuttosto, la ricerca di una misura, di un equilibrio dinamico tra il silenzio e il rumore, tra la presenza e l’assenza, tra la fugacità di un post e la profondità di un istante vissuto. Forse allora la JOMO ci offre un orizzonte simbolico nel quale riscoprire il valore del “non esserci”, un po’ come l’invito a coltivare un giardino segreto – non esibito, non fotografato, ma interiormente fecondo.

E alla fine, cosa potremmo guadagnarci? Forse un senso di pienezza che non deriva dall’aver collezionato momenti “instagrammabili”, ma dall’averne vissuti alcuni senza preoccuparci di portarli alla ribalta di nessuno, neanche di noi stessi. Un viaggio silenzioso che, paradossalmente, restituisce voce alla nostra interiorità. Un viaggio che potrebbe darci il coraggio di dire “no” a ciò che ci distrae da noi stessi, e “sì” a ciò che, invece, ci riconnette al senso profondo del nostro esserci al mondo. E se questo significherà perdersi qualcosa, ecco che potremmo finalmente scoprire che, nella perdita, si nasconde spesso il dono più grande.

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