Quando l’inclusione rischia di cancellare le radici: il paradosso linguistico e simbolico di una società che neutralizza per non ferire, ma finisce per smarrirsi.

Immaginate, care e cari, di entrare in una biblioteca dove ogni libro sia privo di titolo: le copertine sono uguali, i dorsi muti, gli scaffali un silenzioso deserto di significati. Potremmo ancora orientarci? E, soprattutto, potremmo ancora riconoscere la nostra stessa storia dentro quelle pagine anonime? Ecco, la scelta di sostituire “padre” e “madre” con il più asettico “genitore” mi pare il gesto simbolico – e perciò potentissimo – di un simile spogliamento semantico: un’operazione che pretende di includere tutti ma finisce per appianare le differenze, cancellando la genealogia che ci fonda.
Il paradosso dell’inclusione che divide. Ci viene detto che la vecchia dicitura era “discriminatoria” e perfino “bullo‑statale”. Ma davvero l’identità è bullismo? La lingua, fin dalla culla, nomina il mondo distinguendo; il bambino riconosce “mamma” e “papà” prima ancora di afferrare concetti astratti. Togliere quei nomi in nome dell’inclusione rischia di generare l’effetto opposto: se tutto è neutro, nulla è riconoscibile, e l’alterità – lungi dall’essere accolta – viene semplicemente rimossa dal discorso pubblico. È un paradosso: per evitare la ferita della differenza, si amputa la differenza stessa.
Antropologia dell’ordine simbolico. Ogni civiltà, dalle polis greche alle comunità digitali di oggi, si fonda su un ordine simbolico che organizza la realtà. “Padre” e “madre” non sono soltanto etichette burocratiche: sono architravi di un racconto millenario che connette biologico, culturale, perfino spirituale. Non significa negare la pluralità delle forme familiari contemporanee; significa riconoscere che, senza un asse semantico comune, la pluralità implode in un magma indistinto. La tradizione non è un museo di cera: è il filo rosso che consente alle innovazioni di non diventare puro esperimento sociale.
Coesione nazionale e pluralismo ordinato. La coesione di una comunità politica non nasce dalla soppressione delle differenze, bensì dalla loro armonizzazione entro un quadro di significati condivisi. La sostituzione proposta dalla Cassazione – salutata con entusiasmo dalla deputata Boldrini – sembra ignorare che il pluralismo, senza un comune denominatore simbolico, scivola nel relativismo centrifugo. Una nazione che non sa più dire “padre” e “madre” rischia di non saper più dire “noi”.
Dilemma aperto. Resta, certo, il dramma concreto di chi non rientra nel modello tradizionale. Ma la risposta è davvero cancellare la parola che nomina la differenza? O non sarebbe più fecondo trovare forme giuridiche inclusive senza sacrificare l’ossatura linguistica che ci tiene insieme? Siamo davanti a un bivio: o l’identità come trama che accoglie e ordina, o la neutralizzazione come illusoria panacea che, in nome dell’uguaglianza, rende tutti orfani di un racconto.
In ultima istanza, parlare di “bullismo” di Stato a proposito di due parole che hanno attraversato secoli di civiltà pare un’iperbole che confonde la legittima tutela di minoranze con la delegittimazione del simbolo stesso. Se la politica è l’arte del possibile, allora il possibile oggi è custodire la memoria di ciò che siamo – padri, madri, figli – mentre allarghiamo, con prudenza e intelligenza, il perimetro dell’appartenenza. Diversamente, rischiamo di ritrovarci in quella biblioteca senza titoli: circondati da volumi indistinti, incapaci di leggere la nostra stessa storia.
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