Ecco un racconto con un insegnamento universale che affonda le radici nell’etica della reciprocità e nel principio di giustizia: “Chi semina bene, raccoglie bene; chi semina male, raccoglie male“. Questo detto popolare, espresso nelle azioni e nel destino dei due fratellini, sottolinea come le azioni positive e la gentilezza portino a ricompense e felicità, mentre le azioni negative e l’arroganza conducano a conseguenze sfortunate e isolamento.

La storia, con il suo esito diverso per i due fratelli, invita a riflettere sull’importanza di essere generosi, di pensare agli altri e di agire con bontà, perché l’universo tende a restituire ciò che viene dato, sia esso buono o cattivo. Il buon pastore delle vette, figura quasi divina, funge da catalizzatore di questa legge morale, ricompensando il bambino gentile e punendo quello malvagio, ricordandoci che le nostre azioni sono come semi che germogliano e crescono, riflettendo la natura del nostro carattere e delle nostre scelte.

La fiaba del Buon Pastore delle Vette

Nel rigoglioso e vibrante cuore della Valfloriana, nel piccolo e accogliente borgo di Casatta, sorgeva la dimora di due fratellini: il primo, la cui dolcezza era paragonabile al ricco e profumato miele di castagno che gli abitanti raccoglievano nelle foreste circostanti, e il secondo, il cui carattere era forte e intenso come il sapore dell’amaro di genziana, tradizionale elisir del luogo.

Crescevano sotto lo sguardo amorevole dei genitori che, incarnando l’essenza della giustizia e dell’equità, dispensavano un amore incondizionato e imparziale, nonostante le evidenti differenze di temperamento che distinguevano i loro figli. In questo angolo di mondo, tra le maestose cime che si ergevano a custodia del paesino e i verdi prati che si stendevano come tappeti accoglienti, la famiglia viveva una vita semplice, tessendo ogni giorno la tela di un affetto profondo e genuino, un legame indissolubile che si nutriva di piccoli gesti quotidiani e di incondizionato supporto reciproco.

Per favore, mio caro fratello, estendi la tua mano in segno di aiuto,” implorava il fratellino dal cuore gentile, i suoi occhi brillanti di speranza, riflettendo la purezza e la dolcezza della sua anima innocente. “Insieme, potremo raccogliere la legna più rapidamente, e ci sarà ancora tempo per giocare.”

Ma il fratello, con una risata burbera che rompeva il silenzio delle montagne, rispose con una freddezza che portava il gelo nei cuori: “Pensi davvero che mi sporcherò le mani per te? Cresci, e impara a cavartela da solo! Non intendo servire i capricci di un bambino.” Con queste parole aspre, girò le spalle, lasciando l’aria vibrare di tensione mentre si allontanava, segnando con il suo atteggiamento non solo la distanza fisica ma anche quella emotiva che li divideva.

Quando venne il momento di condurre le bestie al pascolo, il buono si incamminò con leggerezza, salutando i suoi genitori: “Non temete, mamma e papà, tornerò prima del tramonto,” disse, la sua voce piena di rispetto e promessa.

Cammina con prudenza, ragazzo mio,” esortava il padre, la voce vibrante di un amore profondo che riecheggiava nelle antiche stanze del loro focolare domestico. La madre, le mani tremanti nell’emozione del distacco, depose un bacio sulla fronte del figlio, un sigillo silenzioso dei suoi timori e delle sue preghiere, i suoi occhi, simili a specchi d’acqua mossi da sottili correnti, lo accompagnavano fin quando la sua figura non divenne un minuscolo punto sull’orizzonte.

Sulle vette della Valfloriana, dove le nuvole si tessono con i sogni degli uomini, il bambino dal cuore puro si rifugiò in una grotta angusta, mentre la furia del cielo liberava la sua tempesta. Il tuono cantava un inno selvaggio, un preludio a una melodia che solo il coraggioso potrebbe comprendere.

Fu allora che il pastore, una figura sospesa tra il tempo e l’eternità, si fece avanti, i suoi occhi raccontavano di inverni superati e primavere accolte. “Giovane custode di bontà, posso trovare santuario tra queste tue mura di roccia? La mia anima è stanca e la terra si agita sotto il peso del cielo infuriato,” implorò con un timbro che era l’eco di un mondo dimenticato.

Senza una traccia di esitazione, il ragazzo si fece da parte, più stretto di un germoglio in boccio. “Vieni, o saggio viandante delle montagne,” dichiarò con una voce che scaldava l’aria gelida, “anche se il cielo ci sfida con la sua vasta rabbia, qui troverai un rifugio di umanità.”

E così, nel piccolo santuario scavato dalla natura, il bambino e il pastore condivisero un momento eterno, un tempo sospeso in cui la grandezza del cuore si misura non dalla propria comodità, ma dal conforto che si offre a chi è senza speranza.

Gli occhi del vecchio, scintillanti di misteriosi riflessi celesti, fissarono il giovane davanti a lui. Un sorriso illuminato da una saggezza ancestrale gli si disegnò sul volto, mentre la realtà intorno a loro sembrava sospesa, in attesa di una rivelazione imminente.

O giovane dall’animo immacolato, la tua generosità risplende come una stella solitaria in questo giorno di tempesta,” disse con voce che era melodia pura. “Io sono il guardiano dimenticato di queste montagne, il Buon Pastore delle Vette, e ho vagato tra le nebbie del tempo per trovare un cuore vero come il tuo. Il cielo ora si placherà e l’oro e l’argento che ti dono siano lo specchio della tua anima.

La voce del bambino, traboccante di gioia, vibrava per la casa al suo ritorno, narrando di come le montagne si fossero aperte per porgere oro e argento nelle sue mani innocenti. Il suo racconto dipingeva il cielo di sfumature di magia e il pascolo di luce brillante, i tesori luccicanti nelle sue maniche come stelle cadute dal firmamento. Incantati e increduli, i suoi genitori ascoltavano, finché l’avidità si insinuò nel cuore del fratellino invidioso, persuadendolo a seguire le orme del bene.

All’alba del giorno seguente, con gli occhi fiammeggianti di desiderio e il petto gonfio di ambizione, il fratello malintenzionato si svegliò determinato a replicare l’impresa. Si fregò le mani, gesto anticipatore della ricchezza che credeva gli fosse dovuta, e partì in una corsa sfrenata: il cielo ancora scuro e gonfio di tempesta, minacciava nuovamente di riversare la sua furia sulla terra.

Nonostante il maltempo, il giovane attraversò i prati inzuppati, i suoi passi affondavano nel terreno che tratteniva ancora il fragore della tempesta passata. Ogni movimento era accompagnato dal murmure dell’acqua appena caduta e dal rombo sommesso del cielo, ancora carico di nubi minacciose. Mentre il vento, messaggero di antiche leggende e moniti, lo sfidava con raffiche insistenti, lui, acceso dalla propria aspirazione, decise di trascurare ogni omen e si inoltrò con coraggio verso un destino ancora avvolto nel mistero.

Giunto al riparo nascosto tra le rocce antiche, il luogo stesso in cui si era consumato il miracolo, il suo sguardo cadde sull’anziano pastore, figura solenne e imponente, la cui presenza era come un faro nella bruma dell’alba. Il vecchio, con la pazienza delle ere e la saggezza del mondo, attendeva, sapendo già che tipo di anima si sarebbe presentata davanti a lui.

Arretrati, vecchio mendicante!” esclamò il ragazzo arrogante, la voce impregnata di un’avidità egoistica, le mani ancora strette attorno al suo bastione di potere. “Il mondo appartiene a me, e non vi è posto per le tue patetiche esigenze.

Il pastore, la cui figura sembrava adesso un tutt’uno con le ombre della grotta, parlò con un tono grave come il rimbombo del tuono: “Così sia, giovane dal cuore di pietra. Le tue azioni, come semi gettati al vento, troveranno terreno fertile e germoglieranno,” profetizzò prima di dissolversi, lasciando al bambino non oro e argento, ma un vortice selvaggio che spirava sassi e spine, emblemi perfetti della sua anima turbata.

A casa, il finale della storia si svelò attraverso le parole di un genitore saggio: seduti intorno al fuoco crepitante che tinge di rosso le pareti della loro modesta casa a Casatta, il padre chiudeva il giorno con le sue parole profonde, mentre le fiamme danzavano riflettendo nei loro occhi attenti. “Ricordate, miei cari figli,” proseguiva, il suo tono dolce ma ferreo, come se le parole fossero scolpite nella pietra delle montagne, “ogni atto che compiamo è come il seme gettato nel ventre fertile della terra. Dare amore, è come piantare fiori nei campi dell’anima. Dare odio, è come avvelenare le sorgenti del cuore.”

Fuori, dove i sentieri si perdono tra i boschi e i fiumi cantano canzoni d’antico sapere, la Valfloriana sussurrava i segreti dell’essere, insegnando ai suoi figli la saggezza della terra.

Le montagne, immense e silenti testimoni, presero la voce del padre e la moltiplicarono in un coro che si estendeva da una cima all’altra, facendo di ogni eco una benedizione, di ogni riverbero una lezione: “Chi semina bene, raccoglie bene; chi semina male, raccoglie male.

Nella quiete della notte, il fratellino buono sognava di valli dorate e cime argentate, un premio tangibile della sua bontà. Il fratellino malvagio, invece, giaceva inquieto, il suo riposo turbato dai sassi e dalle spine del suo cuore che ormai conosceva la forma esatta del suo spirito contorto.

Al sorgere del sole, Casatta si svegliava a una nuova alba, e la vita continuava nel suo eterno ciclo. Ma le azioni dei due fratellini divennero la stoffa di leggende narrate ai bimbi, ai vegliardi, ai viandanti: storie che incutevano virtù e avvertivano sui vizi.

E mentre i giorni scorrevano, l’eco del padre riecheggiava senza fine, un mantra per chiunque avesse il coraggio di ascoltare e il cuore per comprendere: “Fate del bene e il bene tornerà a voi, come il fiume ritorna al mare, come il vento che accarezza le vette dopo aver viaggiato attraverso le valli.”

Così la vita a Casatta divenne un poema vivo, un inno alla bontà, una sinfonia di azioni e conseguenze, tessendo la trama di una comunità dove la gentilezza era il filo più forte e la malvagità si scioglieva come neve al sole. E le montagne vegliavano, immutabili, garantendo che la verità di quelle parole semplici, ma immortali, non si perdessero nel vento ma si radicassero nel cuore di chi aveva ancora da imparare il linguaggio eterno dell’amore.

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