Il terzo mandato in Trentino tra rito di passaggio, identità territoriale e il paradosso di una tradizione che, per restare viva, deve saper cambiare.

Vorrei partire da una figura retorica che sfiora l’ossimoro: la continuità che genera discontinuità. Il dibattito sul terzo mandato, in apparenza un tecnicismo giuridico, ha scoperchiato in Trentino una tensione che attraversa l’intera destra italiana: come conciliare la necessità di stabilità istituzionale con il principio, altrettanto sacro, dell’alternanza come garanzia di libertà e merito.
Il mandato come rito di passaggio. Nelle società tradizionali ogni potere è vincolato a un tempo simbolico: il re che non conosce tramonto scivola fatalmente nel mito del tiranno. Allo stesso modo, il limite di mandato non è solo un argine giuridico; è un rito di passaggio che ricorda a chi governa la natura finita del proprio ruolo e restituisce alla comunità la facoltà di rigenerarsi. Qui il paradosso: invocare il terzo mandato per “difendere l’autonomia” rischia di incrinare proprio quell’ordine che l’autonomia pretende di custodire.
Autonomia, identità, coesione. “L’autonomia si governa a Trento ma si difende a Roma”: lo slogan di Daldoss svela la doppia appartenenza che definisce il Trentino. L’identità territoriale – fatta di valli, dialetti, economie di montagna – non è un micro‑nazionalismo; è un tassello della coesione nazionale. Tuttavia, se l’autonomia diventa autoreferenziale, si indebolisce la trama che lega il centro alla periferia. È la stessa lezione che la destra, storicamente custode dell’unità statuale, dovrebbe tenere a mente: la pluralità delle comunità non contraddice la nazione, la arricchisce.
Il disagio come sintomo culturale. I due consiglieri parlano di “disagio” e “voglia di litigiosità”. Dietro queste parole affiora un tema antropologico: la politica, quando smarrisce la dimensione conviviale, si riduce a geometria di incarichi. In altre epoche le sezioni di partito erano scuole di civiltà, luoghi dove si apprendevano i codici del confronto; oggi rischiano di essere corridoi dove ci si misura a colpi di procedure. Il terzo mandato, allora, diventa il casus belli che fa esplodere un disagio più profondo: l’assenza di uno spazio comune in cui la pluralità possa tradursi in progetto condiviso.
Merito e fedeltà. La destra celebra il merito; eppure il merito, per non ridursi a parola d’ordine, esige criteri trasparenti di valutazione. Se il riconoscimento dipende unicamente dalla fedeltà a un vertice, l’ordine si trasforma in gerarchia sterile, e il talento emigra o si ammutolisce. Qui il limite di mandato funziona come “livella” moraviana: ricorda a tutti che il potere è servizio, non rendita perpetua.
Ordine o conflitto creativo? Girardi invoca un “progetto con sapore innovativo”. Ecco il dilemma cacciariano: può l’ordine tradizionale aprirsi all’innovazione senza dissolversi? Io credo di sì, a patto che l’innovazione non sia puro spirito di contraddizione ma evoluzione fedele alla propria radice. L’ordine, in questo senso, non è quietismo; è la forma che consente al conflitto di non degenerare in caos. Laddove manca tale forma, il conflitto si fa litigiosità narcisistica e l’identità scivola nel particolarismo.
Tradizione dinamica. C’è un insegnamento che viene dal diritto romano: traditio è l’atto di consegnare qualcosa a un altro. La tradizione non è il museo delle cere, ma la capacità di consegnare il passato al futuro in una catena ininterrotta. Difendere l’autonomia trentina – dunque la sua tradizione – significa costruire istituti che favoriscano la partecipazione, non che la murino dentro un mandato indefinito.
La vicenda dei due consiglieri, letta in controluce, non è un episodio marginale. È la cartina di tornasole di una domanda che riguarda tutti noi: come tenere insieme stabilità e ricambio, identità locale e coesione nazionale, ordine e libertà? Se la destra vorrà farsi interprete credibile di questa domanda, dovrà coltivare il coraggio di limitare se stessa: accettare che la forza di un progetto politico non si misura in anni consecutivi di governo, ma nella capacità di rigenerarsi senza rinnegarsi. Solo così l’autonomia trentina, e con essa la nazione, potrà essere non un bastione difensivo, ma un laboratorio vivo di cittadinanza condivisa.
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