Ricordando Vargas Llosa.

Foto: PP Madrid, «Mario Vargas Llosa (retouched)»,
CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0/) via Wikimedia Commons.

Ogni volta che rievoco Mario Vargas Llosa — o meglio: quando il suo nome balena come epifania di un’“opera‑mondo” in cui letteratura e politica si inseguono senza mai coincidere — mi sorprendo a interrogare l’idea stessa di intelligenza storica. Come può, mi chiedo, l’homo faber del XXI secolo disporre di tecnologie capaci di cartografare il genoma, di estrarre dati dal cosmo, e al contempo restare prigioniero di un’antica, coriacea stupidità? Stupidità non come difetto di calcolo, bensì come rinuncia a ciò che Vargas Llosa chiamerebbe «la forza morale del romanzo»: quello sguardo obliquo che scava nelle disuguaglianze, smaschera le idolatrie del potere, produce — per via estetica — una conoscenza intrinsecamente sovversiva.

Eppure l’atto di narrare non basta più. Non perché abbia perso il suo potere, ma perché il suo potere è diventato, per così dire, eccedente rispetto ai dispositivi di cattura che governano la nostra epoca. La rete sociale monetizza l’indignazione prima ancora che il racconto abbia il tempo di stratificarsi; l’algoritmo disinnesca la dialettica riducendola a polarizzazione binaria. Vargas Llosa rimane testimone di un’età in cui il romanzo poteva ancora «agitare le coscienze» senza venire immediatamente trasformato in trending topic. La domanda non è dunque se la letteratura possa salvare il mondo — domanda che sa di nostalgia — ma se il mondo, così com’è, sia ancora disposto a concederle la sua lentezza sacramentale.

Qui si innesta la tensione, apparentemente insolubile, fra liberalismo economico e umanesimo critico. Vargas Llosa, liberale convinto, invoca il capitale come motore di sviluppo, purché incanalato entro istituzioni che difendano il bene comune. Ma l’economia‑mondo di oggi non è più la cornice smithiana in cui l’interesse individuale si trasmuta, quasi per miracolo, in prosperità collettiva. È piuttosto un Leviatano reticolare che privatizza i profitti e socializza le esternalità: il degrado ambientale, l’erosione dei diritti del lavoro, l’esodo forzato delle periferie globali. Se il romanzo — e qui l’insegnamento di Flaubert, caro a Vargas Llosa, torna decisivo — è un microscopio delle contraddizioni, allora il suo compito odierno è mostrare l’invisibile catena che lega il nostro comfort digitale alle miniere di coltan, l’e‑commerce alla desertificazione del suolo, la libertà di consumo alla schiavitù per debito.

Ma che cosa significa «libertà» quando il suo correlato materiale è l’indebitamento? E che cosa significa «socialismo» quando il suo correlato storico è stato, troppo spesso, l’autoritarismo? Vargas Llosa oppone al populismo bolivariano l’ideale di una modernizzazione aperta ai capitali; nondimeno, l’America Latina che egli difende dall’isolazionismo rischia di essere inghiottita da un’altra forma di provinciale dipendenza: quella che subappalta il proprio destino ai flussi finanziari anonimi, agli hedge fund che esigono rendimenti a doppia cifra. Il paradosso è qui: si può essere cosmopoliti solo se si dispone di istituzioni capaci di limitare l’arbitrio del mercato globale. Senza tali istituzioni, la “cittadinanza del mondo” degrada in passaporto d’élite, lasciando intatte — anzi, amplificate — le barriere sociali che pretenderebbe di abbattere.

Da questa faglia sgorga la memoria del “boom” latinoamericano, stagione in cui la scrittura si fece geografia relazionale, ponte fra culture contigue e insieme remote. Vargas Llosa evoca quel tempo come età dell’oro, ma subito ne denuncia il tramonto: la regressione a un «provincialismo» nutrito di nazionalismi culturali. E tuttavia, proprio nella frammentazione contemporanea si cela una promessa: la molteplicità delle voci femminili — Schweblin, Piñeiro, e altre — che ricompongono l’universale a partire dal dettaglio incarnato. Non è forse questo il vero lascito di Macondo? Un “locale” che diventa specchio deformante del mondo, esattamente perché non pretende di rappresentarlo interamente.

Se la corruzione — «endemica come un’epidemia» — mina ogni progetto di emancipazione, la risposta non può esaurirsi nella denuncia moralistica. Occorre un’ermeneutica della corruzione che ne sveli la dimensione antropologica: il patto tacito fra bisogno e desiderio, fra miseria e ostentazione, che trasforma la tangente in scorciatoia ontologica. La lezione di Vargas Llosa sta nel rifiuto di demonizzare la politica tout court: la politica è terreno di scontro, non di redenzione, e la letteratura non deve redimerla bensì metterla a nudo, come faceva il vecchio maestro Raúl Porras Barrenechea quando apriva la propria casa agli studenti. In quell’ospitalità intellettuale vibra l’eco di una pedagogia perduta: la conoscenza come contagio lento, non come download immediato.

Così, ricordare Vargas Llosa significa interrogare il nostro rapporto con l’eredità: non un mausoleo, ma un cantiere aperto in cui ogni pietra viene rimessa in discussione. Il Nobel? Un “anno sotto controllo”, dice lo scrittore, che lo ha costretto a trasformarsi in ambasciatore di sé stesso. Ma forse l’unica vera immortalità risiede nell’oscillazione perpetua fra l’autore e la sua opera, fra il soggetto empirico e la voce impersonale che attraversa i secoli. «I veri maestri di uno scrittore sono i libri che ha letto»: ecco la formula della trasmigrazione culturale. Leggere, allora, non per accumulare informazioni, bensì per entrare nella zona d’indeterminazione dove l’io si decentra e si apre all’alterità.

È in quella zona — fragile, vulnerabile, indisciplinata — che la stupidità può essere vinta. Non con la retorica salvifica, ma con la pratica inquieta del dubbio. Se la letteratura sopravvive alla censura, se resiste all’assimilazione algoritmica, è perché custodisce la potenza del «come se»: come se il mondo potesse ancora essere altrimenti. Vargas Llosa, con la sua fiducia ostinata nella forza del romanzo, ci consegna un imperativo paradossale: per cambiare la realtà, bisogna prima immaginarla nella sua scandalosa pluralità. E forse, in quest’epoca di fanatismi in streaming, la più radicale delle rivoluzioni consiste nel restituire al pensiero la sua lentezza, alla parola la sua ambiguità feconda, all’utopia la sua dignità di domanda aperta.

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